«Giovedì [16 settembre] [...], solennizzandosi qui il dì festivo del
compleanno della M. della reina [...] [il] nostro eccellentissimo sig. viceré [...] se ne passò
[...] a tener cappella reale nella medesima Cappella del R. Palagio dove, in cantandosi il Te
Deum [...], fecesi salva reale da queste regie castella [...]; e la sera poi fece ella cantare una
lieta serenata da eletto coro di musica, con pieno convito di dame e cavalieri».1
Così un avviso della «Gazzetta di Napoli» ci informa dell’esecuzione della serenata Li pastori, e le ninfe di Partenope. La partitura della composizione non sembra sopravvivere, ma il libretto stampato a Napoli dallo stampatore arcivescovile Domenico Parrino in occasione dell’esecuzione, tramanda i nomi dei cantanti e del compositore, Gaetano Veneziano, allora Maestro della Cappella reale.2 Si tratta di un componimento pastorale, che, dietro le vesti arcadiche dell’idillio di ninfe e pastori, ‘mette in scena’ una narrazione di vicende legate alla guerra di Successione spagnola e in particolare alla vittoria riportata «dalla Maestà del Re contro de’ Collegati in Ispagna». Significativamente nella prospettiva napoletana i nemici della monarchia spagnola sono descritti come ‘barbari predatori’, come nelle parole di Aminta:
[…]
«Minacciavan, o Silvia,
Barbari predatori i nostri armenti.
Era il Germano, e ‘l Lusitano insieme,
E ‘l Batavo co l’Anglo à nostri danni.
Queste campagne, e quelle
De l’Iberia felice
Cuoverte già di mille mandre e mille:
Ciò, che i nostri aratori
Franger lungi tu miri
Da l’Indo al Moro, e da l’orto a l’occaso:
E quanti fiumi a dissetar le immense
Greggie scorrono per entro
Cento colonie, e cento,
Cui tutte il nostro Sire
Con alto imperio regge,
Eran brieve confine al lor desire.
Al suo de l’armi
In duri carmi
Solo cantavano
Straggi, e furor.
Che ninfe irate
Ai loro amanti
Co’ fier sembianti
Già non minaccianoi
Tanto rigor.»
Il racconto è suddiviso tra i due pastori Aminta e Tirsi. Quest’ultimo in particolare riferisce della minaccia giunta così vicina alla città partenopea:
[…]
«Odi caso: già scorse aveva l’Oste
Là le campagne Ibere
Più veloce di veltro,
Che in traccia voli a fuggitiva damma.
I suoi corsieri ‘nsino
Su le porte eran giunti a’ nostri spechi;
E fin pascean begli orti.
Il guasto, e non la caccia
Ne gli Eliceti si facea: ne l’onde
Chiare del Manzanaro
Attuffavansi ancor gl’orridi ceffi.
E d’ogn’intorno, o ninfa,
Udito avresti un suon feroce, e altiero
Non di pifferi, flauti, o di sampogne,
Ma di timpani, e trombe,
E altri di Marte barbari strumenti.
Che a la gran caccia preparava i fieri
Animi predatori.
Ma incauti cacciatori enttro lor rete
Dieri, e di predator divenner preda;
Quando il Real Garzone, il nostro Sire,
Cui di beltà, di senno, e di valore,
Di chiaro sangue, e di pietade cede
Ogni mortal, die sovra de’ nemici
Con coraggio maggior de la sua forza
Capo a bravi drappelli di pastori
Iberi, Itali, Galli, e Belg’insieme.
Da li suoi occhi in un splendenti e fieri
Visti, e vinti color furo in un punto!
De le perdite lor pur gloriosi:
Ma di tal vincitor fors’anche indegni.
Tirsi: Consoliamoci, ninfe gentili,
Tempo lieto è di godere [....]»
Napoli può dunque godere una serena pace tra i tumulti della guerra: su questo motivo si chiude la composizione con un’esaltazione del monarca (in un’aria a due voci tra il pastore Tirsi e la ninfa Clori poi ripetuta a due cori di Pastori e di Ninfe) che attraverso la vittoria permette ai pastori e alle ninfe di Partenope di godere “la bella pace”.
«Or che l’oste vinta giace
Goderem la bella pace
In questi lidi
Amanti fidi
Ma il più nobile piacer
de la vittoria
sia di goder
La gloria
Del Re nostro vincitor».
CP